giovedì 6 ottobre 2011

Stress Test

L'articolo presentato uscirà sul prossimo numero di Progetto Lavoro per una sinistra del XXI secolo
Stefano Squarcina

Pensata come grande operazione di esibizione di muscoli finanziari per dimostrare che tutto va bene e che lo stato di salute del sistema bancario europeo è eccellente, la pubblicazione -il 15 luglio scorso- dei risultati degli « stress test » cui sono stati sottoposti 91 istituti finanziari dell’UE non ha convinto nessuno. Per mettersi al riparo dalle critiche di chi la accusava di non voler vedere in faccia la verità -l’estrema fragilità del sistema creditizio europeo- l’Autorità Bancaria Europea (ABE) ha elaborato dei potenziali « scenari di crisi acuta » e ha chiesto alle banche di verificare la loro solidità e liquidità in tali contesti virtuali. L’obiettivo principale era di testare i livelli critici del « Tier One », i fondi reali a disposizione degli istituti finanziari, quelli che rappresentano la vera garanzia per i creditori in caso di catastrofe (immaginata come una crisi di almeno due anni, con crescita nulla del PIB per il 2012 e di -0,4% per il 2011), e fissati tra il 5 ed il 7% dell’insieme delle attività della banca in questione. Ma l’attendibilità scientifica e politica degli “stress test” è stata macchiata dalla decisione dell’ABE di escludere da ogni “scenario di crisi” qualsiasi ipotesi di default o fallimento di uno Stato Membro dell’Unione, come la Grecia o il Portogallo, ipotesi invece molto realistica vista la situazione. Questo significa che l’ABE, per ragioni squisitamente politiche (“non è all’ordine del giorno nessun default in Europa”, ma chi gliel’ha detto…), ha ordinato “stress test” dalla credibilità inesistente, come puntualmente si è verificato poche settimane dopo la pubblicazione dei risultati, quando il sistema creditizio e finanziario mondiale è entrato nella più grave crisi dopo quella scatenata dai “subprimes” americani nel 2008.
 Scientificamente accomodati e politicamente manipolati i parametri di misura, non c’è da stupirsi se l’ABE ha promosso a pieni voti 82 dei 91 istituti bancari europei. Quelli con il miglior tasso di “Tier One” sono a sorpresa la spagnola BBVA (9,2%) e l’italiana Intesa San Paolo (8,9%), mentre due banche greche, una austriaca, una tedesca e cinque in Spagna (Madrid ne aveva ventiquattro sott’osservazione) non hanno passato l’esame virtuale. Per quest’ultime sono pronti piani di aiuti dei rispettivi governi e dell’Unione Europea. A titolo di informazione, sono state “promosse” tutte le banche italiane testate (Unicredit, Monte dei Paschi, Banco Popolare ed UBI, oltre alla Intesa San Paolo; il loro “Tier One” medio è del 6,2%). Sintesi di tutto lo “stress test”, insomma, è che al sistema bancario europeo mancherebbero solo 2,5 miliardi di euro, il buco delle nove banche “bocciate”, per garantire un’eccellente prestazione e di disponibilità di fondi in caso di “crisi acuta”. Bene, si potrebbe affermare: solo che si tratta di una “fotografia” scattata sul pianeta Marte, mentre qui sul pianeta Terra, ed in particolare nell’Unione Europea, stiamo discutendo del collasso finanziario della Grecia e dell’effetto domino che esso può scatenare nell’intero continente europeo, attraverso l’esposizione di banche importanti rispetto al debito sovrano di Atene, ma anche di Lisbona, Madrid, Roma, Dublino. L’ABE ha semplicemente deciso di ignorare il problema. E non pochi se ne sono accorti… Su tutti, per ciò che rappresenta nell’establishment politico-finanziario mondiale, spicca il giudizio senza appello del quotidiano “Financial Times”: “Gli stress test si sono rivelati un esercizio poco rigoroso per riportare la fiducia degli investitori nel sistema finanziario dell’Eurozona. È l’Unione Europea che ha fallito il proprio test!”.

Non che l’Unione Europea avesse fatto meglio con il precedente test del 2010. Anche allora misurò la febbre a 91 istituti bancari europei. Anche allora “tutto andò bene”, peccato però che tra le 84 banche promosse ci fossero anche le irlandesi “Allied Irish” e “Anglo-Irish”, che avrebbero dichiarato fallimento da lì a poche settimane, investite dalla bolla speculativa immobiliare in provenienza dagli Stati Uniti che proprio lo “stress test” doveva misurare! Il problema è della stessa natura di quello rappresentato dalle agenzie di notazione, che continuano a distribuire voti agli Stati e alla sostenibilità del loro debito: nel 2008 dichiaravano molto affidabili la Lehman Brothers o la Goldman Sachs, salvo poi “esplodere in volo” con il massimo dei voti di Moody’s o Standard and Poors! È evidente che le “notazioni” o gli “stress test” rispondono ad interessi politici oligarchici e fuori controllo democratico.


Anche perché la realtà è un’altra. Ovvero che i sistemi bancari nazionali in seno all’UE sono molto esposti in termini di possesso di titoli pubblici portoghesi, irlandesi, italiani, greci o spagnoli (quelli dei “Paesi PIIGS”), che hanno perso gran parte del loro valore iniziale. Lo ha ricordato ad alta voce, il 29 agosto scorso, la nuova responsabile del Fondo Monetario Internazionale, la francese Christine Lagarde, quando ha affermato che “le banche europee sono esposte per almeno duecento miliardi di euro verso il debito sovrano PIIGS”, e che “se si applicano gli stessi parametri ad altri Paesi in difficoltà, il rischio sale a trecento miliardi”. Altro che i 2,5 miliardi dell’ABE… L’FMI ha invitato perciò “i governi europei a promuovere con urgenza una ricapitalizzazione degli istituti bancari, perché c’è un problema di liquidità e di sostenibilità reale del sistema bancario”, arrivando addirittura a proporre che i 440 miliardi del futuro “Meccanismo di Stabilità Finanziario Europeo” (EFSF) vadano in un fondo che alimenti tale ricapitalizzazione. Parole severe, che provocano preoccupazioni ed allarmi evidenti, contro le quali i leader europei si sono buttati a capofitto, dimenticandosi prima di ragionare un po’. L’esempio lampante viene dalla Commissione Europea: un giorno il suo Presidente, Barroso, dice “che l’FMI si sbaglia di grosso e che la banche europee sono molto solide”; un altro giorno i Commissari Almunia e Rehn dicono invece che “il problema c’è e vanno trovate misure per affrontarlo”. Il tutto dentro una crisi finanziaria senza precedenti, con una nuova recessione economica (“double dip”) ormai in arrivo secondo importanti economisti anche di area liberista, con l’ipotesi di un “fallimento controllato” della Grecia ormai all’ordine del giorno (sia esso formale o sostanziale), con un mercato azionario europeo ai minimi da tre anni che ha ridotto significativamente il valore stesso dei principali istituti bancari UE.

Quanto siano inattendibili i risultati degli “stress test” dell’ABE e quanto timore reale abbiano invece suscitato le affermazioni della Lagarde lo dimostrano alcune recenti riunioni, segrete e no. La prima (segreta) è quella svelata dal quotidiano francese “JDD”: il Ministro del Bilancio francese, Valérie Pécresse, ha incontrato l’11 settembre scorso -in modo riservato- i direttori delle cinque più grandi banche francesi (BNP Paribas, Société Générale, Crédit Agricole, BPCE e Crédit Mutuel) e ha annunciato che il governo metterà a loro disposizione tra i dieci e i quindici miliardi di euro in caso di necessità, sotto forme diverse (prestiti, acquisti di azioni senza diritto di voto, opzioni di acquisto, eccetera…). Inutili le smentite del Ministro o del Governatore della Banca Centrale francese: il fatto stesso che si sia tenuta una tale riunione dimostra che un problema esiste. Ed infatti non sono mancate vendite sostenute delle azioni in particolare di Société Générale e BNP, che hanno incassato forti perdite in borsa. E se qualcuno pensa che in Francia “fanno i furbi”, in Germania non lo sono di meno. Ecco a voi “Eureca”, il piano (segreto) elaborato dal gabinetto di esperti “Roland Berger Consultants”, vicino agli ambienti governativi della Cancelliera Merkel, con il quale Berlino intende privatizzare tutto il privatizzabile in Grecia per recuperare la gran parte dei soldi tedeschi prestati ad Atene. Il piano, divulgato dal quotidiano francese “La Tribune”, prevede la creazione di una società, con base a Lussemburgo, che prenda il controllo dei settori attivi dello stato greco (porti, aeroporti, autostrade, telefonia, immobili…) e li svenda velocemente per permettere ad Atene di “fare cassa” e ripagare i prestiti tedeschi. Queste riunioni a Parigi e Berlino, insomma, dimostrano il nervosismo delle capitali europee di fronte ad una situazione che sembra sfuggita di mano e che può rivelarsi “uno tsunami” per l’euro.

Sul piano dei vertici politici più recenti, invece, c’è da registrare la volontà ufficiale dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) di venire in soccorso finanziario all’Unione Europea per gestire la crisi del debito sovrano, anche per proteggere i loro stessi interessi: soprattutto, molti vedono nella Cina e nelle sue enormi riserve monetarie un possibile punto d’appoggio, almeno in questa fase. Cosa che la Cina dice di essere pronta a fare, ovviamente a certe condizioni finanziarie e politiche. Infine, c’è anche la riunione di fine settembre del Fondo Monetario Internazionale, durante la quale è stato detto che “la stabilità finanziaria ed economica mondiale è in grave pericolo” e che per questo, nei prossimi mesi, l’FMI creerà un fondo di molte centinaia di miliardi di dollari per preservarla (da qui verrebbero i finanziamenti per un “vero piano di salvataggio” dell’euro, compreso l’assorbimento di possibili “default”).

Insomma, lasciata da parte l’Autorità Bancaria Europea che “non vede, non sente, non parla”, i leader europei ammettono ormai “l’esistenza della più grave crisi politica, economica e finanziaria della storia dell’Unione Europea”, come ha detto Barroso all’Europarlamento il 27 settembre scorso. Il problema, però, è che sono stati proprio loro e le loro politiche ad averci portato a questo punto, e che non hanno nessuna intenzione di cambiarle, anzi: centinaia di miliardi di euro sono stati iniettati in tre anni nel sistema bancario privato mentre negli Stati Membri UE venivano, vengono e verranno promosse politiche antisociali di tagli alle pensioni o alla sanità, di disintegrazione dello stato sociale, per non parlare dei milioni di disoccupati. Dicono che non c’è un soldo per rilanciare la crescita e l’occupazione, eppure trovano miliardi di euro in riunioni segrete per finanziare ancora le banche. Malgrado tutti questi aiuti, siamo ancora sull’orlo del precipizio, se non già in fase iniziale di caduta libera. Non è mettendo una pezza qua e là per arginare la crisi dell’euro che si salverà l’Europa: sono necessarie nuove politiche di equità, sviluppo e solidarietà, affinché la moneta unica non sia il solo collante politico nell’UE, ma lo diventino le politiche sociali ed occupazionali capaci di proteggere il modello sociale europeo.

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