martedì 25 ottobre 2011

Cambiare l'Italia, cambiare l'Europa

Roberto Musacchio
L'articolo presentato uscirà sul prossimo numero di Progetto Lavoro per una sinistra del XXI secolo

"Cambiare l’Italia, cambiare l’Europa", era il secondo striscione di apertura che il movimento aveva deciso di mostrare alla manifestazione del 15 ottobre, a seguire quello che riportava lo slogan internazionale, "People of Europe, rise up – popoli d’Europa, alzatevi". Un segno importante di comprensione del fatto che l’indignazione chiede comunque anche il cambiamento e che il cambiare l’Italia e l’Europa vanno di pari passo. Come sia andata poi la manifestazione lo sappiamo e la discussione su questo non è la materia di questo articolo. Per quanto devastato dalla incursione di un politicismo violento, che è altro dalla sofferenza sociale che esprime rabbia, il movimento è riuscito comunque in questa fase a mettere al centro i suoi temi che sono quelli di una critica radicale della condizione che si è determinata a seguito delle politiche di globalizzazione liberista che, qui da noi, hanno segnato profondamente il progetto, che ha una valenza storica, di realizzazione della integrazione europea. Qui c’è un primo elemento di approfondimento necessario. La costruzione dell’Europa è la forma concreta che la globalizzazione liberista assume nel Vecchio Continente? Oppure, il percorso storico della realizzazione dell’Europa precede e, in parte, prescinde, salvo poi però essere curvato dal suo realizzarsi concretamente nell’epoca dell’egemonia del pensiero unico verso il divenire una mera, sia pur potente, articolazione di quella egemonia? La mia risposta è la seconda e poggia sulla ricognizione di un lungo percorso storico che dalla liberazione dalla società feudale, all’urbanesimo e all’umanesimo, fino all’era segnata dall’irrompere del movimento operaio, parla di una costruzione complessa, e terribilmente drammatica se solo pensiamo alle guerre, al colonialismo, al razzismo, che produce quello che chiamiamo il modello sociale europeo. E che ha in sé i materiali per provare a fare dell’Europa quello di cui parlano Bauman, l’avventura della costruzione di una globalizzazione dei diritti e della cittadinanza, e Balibar, il mediatore disarmato che traghetta il mondo fuori da guerra e violenza. Ma la realtà storica ci dice che l’Europa che si sta realizzando è molto più simile a quella che porterebbe a dare un consenso alla prima risposta, e cioè una articolazione del pensiero unico.
Questa non è un’affermazione che si fa a cuor leggero perché apre una riflessione difficilissima che assomiglia molto a quella che siamo stati costretti a fare sul rapporto tra idealità socialista e il socialismo storicamente realizzato. E siccome chi ne scrive in questo articolo ha provato nella sua vita a non far discendere dal tragico fallimento di quest’ultimo la scomparsa della idealità, dichiaro subito che per l’Europa mi muovo nello stesso spirito. Naturalmente paragonare socialismo reale ed Europa può apparire una forzatura. Ma proviamo a vedere cosa lo consente facendo una analisi che si rifiuta di prescindere dai dati di realtà. E’ la realtà che ci dice che l’Europa di oggi rompe costantemente con alcuni dei suoi valori fondatori. La democrazia. La pace e il ripudio della guerra. L’idea del compromesso sociale inclusivo che riconosceva il valore fondante del lavoro. La cittadinanza come valore universale. Sono tesi forti ma che poggiano su dati altrettanto forti. Prendiamo la democrazia. Difficile non riscontrare in ciò che si è realizzato un vulnus quasi mortale agli impianti democratici. Ciò che si manifesta sotto forma di lettera della Bce è solo la punta di un iceberg ormai alto e profondo che rischia di affondare la democrazia come fosse il Titanic. Il 4 ottobre è stato definitivamente approvato il cosiddetto six pack e cioè i sei tra direttive e provvedimenti che danno corso ad Europlus. Europlus è la superfetazione della governance ademocratica che l’Europa si dà per fronteggiare la crisi. E’ composta da tutte figure governative, e cioè il Consiglio, la Commissione, la Bce, il FMI. Si dirà che è il perpetuarsi del tradizionale intergovernativismo europeo. Non è così perché il carattere sistemico che assume è tale da ledere la relazione democratica tra esecutivi e parlamenti e, addirittura, mandato popolare. La vera tragedia greca rappresentata dal governo socialista di Papandreu, eletto per una politica e obbligato a farsene fare un’altra da strutture che lo commissariano, è l’esempio tragico e lampante che si estende rapidamente a tutti. Europlus estende i poteri di cooperazione governativa rafforzata dati dal Trattato di Lisbona e si rende di fatto costituente di un nuovo ordine gerarchico che relega parlamenti e mandati popolari a mere comparse. Basta vedere la nullità del Parlamento Europeo a fronte del dibattito per la coapprovazione del six pack per rendersene conto. Il PE ha certificato che le scelte della governance gli verranno “ comunicate “, in quella che è una sorta di logica aziendale dove non a caso è la struttura d’impresa che decide e, forse, poi comunica alle maestranze. Né la governance si limita a vigilare sui grandi numeri. Al contrario essa entra nel merito qualitativo delle scelte. La prima scelta è quella di porre al centro il debito, dopo la centralità del deficit che ispirò Maastricht. A conferma che le politiche antideficit non hanno prodotto alcun risultato sul debito. Ma la scelta appare ancor più spudorata se si pensa che l’exploit di deficit e debito di questi anni è dato dagli sforzi colossali, e sciaguratamente inefficaci se si vuol dare credito all’idea che si sia cercata l’efficacia, di risanare i gusti creati dalla speculazione finanziaria e dalle sue conseguenze sociali. In realtà si paga la predominanza assoluta della globalizzazione basata sulla finanziarizzazione e la valorizzazione del lavoro. Questa ha preso negli USA la forma dell’indebitamento massivo del cosiddetto consumatore stressato, e cioè di quella figura che doveva sostenere il mercato al posto del lavoratore salariato. E in Europa invece la forma della totale egemonia del monetarismo, altrettanto, e forse più per la sua rigidità, incapace di contrastare la speculazione finanziaria, finendo con l’alimentare la sistematica trasformazione del debito privato in debito pubblico. Quale sia la potenza di fuoco di questo pensiero unico lo vediamo però ora nella sua capacità di spostare il tiro dalla speculazione stessa a pensioni, salari e welfare. Con qualche giochino che assomiglia alla vendita degli specchietti ai pellerossa come nell’adombrare una timidissima tassa Tobin, incerta e lontana, portando a casa subito il taglio delle pensioni. Tutto ciò è impressionante. E falsifica del tutto le teorie che, in particolare per le sinistre socialiste, avevano alimentato l’idea di una costruzione in due tempi. Prima il funzionalismo, affidato al dominus moneta, e poi la politica e la democrazia. Niente di tutto ciò è risultato vero. Il funzionalismo monetaristico si è mangiato la democrazia e si è fatto lui politica. Una politica che si fonda sulla famosa teoria di “ Tina “, there is not alternative, non c’è alternativa, per cui ogni cosa appare obbligata e tecnicizzata. Così è Europlus. Non si può che assecondare la speculazione mettendo al centro il debito. Non si può che intervenire sulla spesa sociale. Non si può che imporre gli interventi in modo automatico. E infatti l’età pensionabile deve crescere automaticamente con l’aspettativa di vita, in barba agli aumenti di produttività. Questi ultimi non vanno ai salari ma alla riduzione del debito. E i contratti nazionali sono incompatibili con il risanamento. Il rilancio dei profitti va fatto con le privatizzazioni dei servizi e dello stato sociale. E tutto questo si fa con lettere, telefonate, indirizzi prescrittori e minacce di sanzioni dirette o dei mercati. Altro che una lettera della Bce, che pure, non a caso, era segreta. Falsificato dunque tutto l’impianto con cui i tredici governi socialisti su quindici che hanno dato il via a Maastricht avevano pensato la sciagurata logica dei due tempi. Falsificata anche l’idea di una coesione sociale e di un nuovo compromesso che intervenisse a valle di questa costruzione e fidando sostanzialmente nella crescita prevista grazie alla costruzione stessa di questa Europa e alla globalizzazione. E’ l’impianto della Strategia sociale di Lisbona che si nutriva molto del libro bianco di Delors. Il consuntivo è desolante. Occupazione ridotta e dequalificata; meno welfare; precarizzazione sociale; crescita inesistente; armonizzazione ed integrazione al palo. Infatti in questo quadro l’Europa tedesca era praticamente scontata in quanto mera e diretta articolazione di questa integrazione subalterna dell’ Europa nella globalizzazione liberista. E’ lì, nel patto corporativo che regge la Germania, il vero problema e non nell’allargamento ad Est come dicono ancora settori delle socialdemocrazie. Il problema centrale non è l’idraulico polacco, ma la Merkel che ringrazia in questi giorni il proprio sindacato metalmeccanico per l’aiuto dato nella crisi con la moderazione salariale. E’ lì il dumping e cioè nel destinare gli aumenti di competitività a sostenere le esportazioni e non i salari. Non che in Germania, come in tutta Europa,l’allargamento non abbia portato dumping dal basso, ma il cuore è l’alto. Naturalmente il problema non sono gli operai tedeschi ma una politica che è stata incapace di ricostruire una nuova coalizione europea del lavoro che rompesse i patti corporativi, lottasse contro il dumping e respingesse l’ademocraticità intergovernativa grazie alla forza dell’armonizzazione dei movimenti. Le sinistre sono state incapaci, quelle socialiste, di pensarlo o, le radicali, di farlo. Per questo la rottura democratica è così profonda e drammatica, perché si accompagna all’altra, che dicevo all’inizio, con il ruolo socialmente fondante del lavoro e con la ricerca del compromesso sociale. Derubricazione della democrazia, del lavoro e del welfare stanno in tutti gli atti della costruzione europea, dai trattati economici, al trattato europeo, agli statuti della banca e della corte di giustizia, alle basi giuridiche delle direttive. Tutto ciò che ispirava il modello sociale europeo è diventato residuale, le Costituzioni nazionali, i contratti, i diritti sociali, o meramente aggiuntivo e inesigibile, come la Carta dei diritti di Nizza. La rottura si è estesa addirittura al concetto di cittadinanza universale sia dentro che fuori le frontiere. L’idea di subordinare le libertà fondamentali di mobilità e soggiorno dei cittadini europei a criteri di reddito è addirittura un ritorno alle antiche cittadinanze di censo. E l’ignobile trattamento verso i migranti, addirittura riconfermato a fronte delle rivoluzioni arabe, è la negazione dello stesso principio del diritto a muoversi per cercare lavoro che lanciò il capitalismo contro la vecchia servitù della gleba. Né si può tacere che anche l’idea alta del ripudio della guerra che fonda l’avviò stesso della costruzione di un’Europa che aveva prodotto nel suo seno l’orrore dei conflitti, sia stata prima sconvolta dall’irrompere delle guerre americane e poi fatta carta straccia da quelle europee, come da ultimo in Libia. Sempre, naturalmente, con la copertura delle affabulazioni delle guerre umanitarie, come il taglio delle pensioni si fa per favorire i giovani. I giovani, appunto, sono le vittime destinate di tutto ciò, la prima generazione che concretamente sta peggio dei propri padri a dimostrazione della follia di queste politiche. L’indignazione, la denuncia a tutto il sistema di non rappresentarli, il bisogno di rompere il recinto, la volontà di ri/conquistare una nuova democrazia, sono la natura di questo nuovo movimento. Che si nutre anche dei materiali di una stagione lunga di lotte altermondialiste, che in altre situazioni, che pure apparivano ed erano assai più compromesse come l’America Latina, avevano ispirato vere e proprie rinascenze anche ai livelli dei governi, ed ora sono partecipi della primavera araba. Ma non qui in Europa e la domanda sul perché si fa angosciante se pensiamo a quanto forte siano stati i movimenti e le sinistre che hanno costruito il modello sociale europeo e a come a questo modello si ispiranoancora in molti, proprio mentre noi non riusciamo a contrastare la sua distruzione. La condizione delle sinistre europee è devastata. I socialisti sono stati partecipi di questa costruzione europea. Ne escono travolti con pochissimi governi rimasti tra cui quello spagnolo che non sembra proprio capace di reggere più e che ha addirittura deciso lui stesso di mettere in costituzione il pareggio di bilancio introiettando tutto l’armamentario proposto dalle destre. Ma anche la dove la crisi delle destre riapre prospettive non si vedono costruzioni di una alternativa adeguata. In Germania, addirittura a Berlino, finita l’alleanza SPD e Linke si va quasi sicuramente ad una riedizione della grande coalizione SPD e CDU, e di grande coalizione si torna a parlare per l’intero Paese dove dopo il più 5% dello scorso anno l’economia ora ristagna intorno al più 1 oanche meno. In Francia alle primarie socialiste i contendenti si sono misurati tutti all’interno dell’accettazione dei parametri monetari, con curvature più che altro di sensibilità nazionalistica. E in Italia tornano vecchie ricette che hanno già prodotto pessime pietanze, come l’ulivo. In realtà alla domanda dei movimenti “ rimandate a casa la lettera della Bce “ non arrivano risposte vere e convincenti. Il massimo cui sembrano aspirare le sinistre è la riedizione della ricorrente logica del pendolo o un chiamarsi fuori a priori. Il tema è invece quello di rivoltare il quadro, cambiare paradigma, rompere il recinto. Esso richiede innanzitutto che il valore cardine di cui si nutrono i movimenti, e cioè la democrazia, sia assunto sul serio. Democrazia come elemento non trattabile che riguarda la politica e la costruzione europea. Non una democrazia una tantum, plebiscitaria e maggioritaria, ma come organizzazione del senso di sé, della partecipazione e del diritto a decidere. Per stare in Italia, qualcosa che rompa alle radici con la marcescenza della seconda repubblica dei soggetti maggioritari meri collettori di voti per la presa di un governo sempre più effimero. La seconda scelta è proprio quella europea, del contrasto a ciò che è ma della riproposizione di ciò che dovrebbe essere, perché non ci sono scorciatoie nazionalistiche possibili. La terza è il cambio di paradigma. Che significa ri/costruire nuove centralità alternative a quelle imposte. Il lavoro; i beni comuni; la cittadinanza dei diritti. Siccome oggi la lotta si fa sul terreno del debito significa non solo una ristrutturazione socialmente connotata di questo debito, ma, per dirla con Latouche, il ricondurre la moneta da pessimo padrone quale è a buon servitore quale dovrebbe essere. Compresa la realizzazione di forme di economie demonetizzate o a moneta sociale. Ma poi è il paradigma della crescita che non funziona più e che ci dà i danni della crescita senza più i benefici. Il vero default è quello che si realizza ogni anno sempre prima quando sono state consumate troppo presto tutte le risorse naturali che erano disponibili per l’intero anno solare. Insomma è quello che abbiamo chiamato l’altro mondo possibile che deve diventare anche un’altra Europa.

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