venerdì 2 dicembre 2011

La situazione europea

Stefano Squarcina
24 novembre 2011

L'articolo verrà pubblicato nel prossimo numero della rivista “Progetto lavoro”, www.rivistaprogettolavoro.it

Quattro giorni, non uno di più. Tanto è durato il periodo di grazia ed euforia determinato dalle decisioni prese dal Consiglio Europeo e dal Vertice dell'Eurozona del 26 ottobre scorso sulla crisi finanziaria: i risultati dei due summit erano stati presentati come definitivi, in grado di salvare l'euro una volta per tutte. Nelle conferenze stampa notturne, convocate alle cinque del mattino del 27 ottobre, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel avevano annunciato che tutti i problemi dell'euro erano stati risolti, che un difficile accordo era stato trovato per proteggere la moneta unica e che non c'era ragione per preoccuparsi ulteriormente delle sorti dell'euro. Invece... È bastato l'annuncio -il 31 ottobre- della possibile organizzazione in Grecia di un referendum popolare sulle nuove misure di accompagnamento alla ristrutturazione del debito di Atene per scatenare un cataclisma politico dal quale non siamo ancora usciti, annuncio che ha rimesso al punto di partenza, ancora una volta, le lancette della crisi.
Le reazioni isteriche alle parole di Georgios Papandreou sul referendum hanno messo in luce un'Unione Europea che teme il giudizio dei suoi popoli, che ha fatto di tutto per impedire il libero esercizio della sovranità popolare, che concepisce la nuova governance economico-finanziaria come dogma indiscutibile e non negoziabile. Con il rischio che l'Europa venga letteralmente sepolta dal peso dell'irresponsabilità politica verso i suoi cittadini, sempre più consci del fatto che stanno pagando il prezzo di una crisi finanziaria determinata dalla speculazione e da un sistema bancario il cui salvataggio ad ogni costo rappresenta il nuovo totem da adorare. Istituti bancari che, in tre anni, hanno incassato 4.600 miliardi di euro di fondi pubblici, mentre non un euro è stato speso in piani europei di rilancio della crescita e dell’occupazione. Le riunioni del 26 ottobre erano state convocate in un clima di accorta drammatizzazione mediatica: "Il vertice dell'ultima chance", "L'Europa si gioca tutto", "Senza accordo il diluvio è assicurato". Ciò è servito a creare le condizioni politiche per presentare i deludenti risultati dei vertici del 26 ottobre come un accordo insperato, come un momento di lucidità e di estremo senso di responsabilità dei leader europei, e per incensare Merkel e Sarkozy quali novelli salvatori della patria. In realtà, a ben guardare, c'è gran poco di concreto nelle conclusioni del Consiglio Europeo e del Vertice dell'Eurozona, essendosi limitati i Capi di Stato e di Governo a fissare delle linee politiche generali di sostegno alla Grecia e agli altri Paesi in difficoltà di bilancio, la cui inconsistenza non è sfuggita né ai mercati né ai think tank internazionali. Il resto l'ha fatto l'annuncio a sorpresa del referendum popolare in Grecia, che ha smontato in cinque minuti il castello di carta presentato in pompa magna, a notte fonda, dai leader europei. Le linee-guida decise dai Capi di Stato e di Governo a fine ottobre sono fondamentalmente tre, e hanno l'unico vantaggio di rappresentare -a modo loro- un momento di verità rispetto alle tante menzogne sin qui raccontate su Grecia e dintorni. Innanzitutto, c'è la presa d'atto formale che il sistema bancario europeo ha i piedi d'argilla e che vanno prese misure urgenti per consolidarne le fondamenta. Il 15 luglio erano stati pubblicati i risultati di un inattendibile stress test sulle banche europee che aveva certificato la presunta buona salute dei nostri istituti di credito; peccato che il tumulto dei mercati tra fine luglio e ottobre abbia mostrato che il re è nudo e che lo stress test non ha alcun fondamento scientifico. Al Consiglio Europeo del 26 ottobre non è rimasto, dunque, che dire la verità, ovvero che bisogna procedere ad una ricapitalizzazione delle banche europee, mettendo così fine alla prima, grande mistificazione politica dei mesi scorsi. "Il consenso è ampio -dicono adesso i Capi di Stato e di Governo- sulla necessità di imporre alle banche un coefficiente patrimoniale decisamente più elevato, pari al 9% di capitale di elevatissima qualità, dopo aver considerato la valutazione di mercato delle esposizioni di debito sovrano, entrambi dal 30 settembre 2011, al fine di creare una riserva temporanea giustificata dall'eccezionalità delle circostanze. Quest'obiettivo di capitale in termini quantitativi dovrà essere raggiunto entro il 30 giugno 2012, secondo piani concordati con le autorità nazionali di vigilanza, coordinati dall'Associazione Bancaria Europea". A luglio avevano fissato la percentuale minima del cosiddetto "Tier One" al 5%, tre mesi dopo ne chiedono il sostanziale raddoppio: meglio tardi che mai, verrebbe da dire, peccato che nel frattempo siano stati bruciati in borsa centinaia di miliardi di euro e perse decine di migliaia di posti di lavoro. Per il momento, nessuno sa ancora come raggiungere tale obiettivo, l'unica cosa certa è che la Germania si oppone per principio ad una iniezione automatica di capitali pubblici. Ecco dunque la linea tedesca imposta all'insieme del Consiglio Europeo: "Le banche dovrebbero in prima istanza usare fonti di capitale privato, anche ricorrendo alla ristrutturazione e alla conversione del debito in strumenti di capitale; dovrebbero essere soggette a vincoli riguardo alla distribuzione di dividendi e bonus, fino al raggiungimento dell'obiettivo". In pratica, ciò significa che gli istituti di credito dovrebbero usare eventuali profitti o dividendi per la loro ricapitalizzazione invece di ridistribuirli ai propri azionisti. Ma si tratta solo di un'ipotesi di lavoro. "In ultima istanza, e se veramente necessario -dice il Consiglio- i governi nazionali dovrebbero fornire sostegno e, qualora questo non fosse disponibile, la ricapitalizzazione dovrebbe essere finanziata tramite prestiti del Fondo Europeo per la Stabilizzazione Finanziaria (FESF) per i paesi della zona euro", prestiti sottoposti ad una condizionalità politica severa. Nessuna misura concreta per procedere a tale ricapitalizzazione è stata ancora presa. Il secondo imbroglio dei vertici del 26 ottobre è quello sulla "potenza di fuoco" del Fondo Europeo per la Stabilizzazione Finanziaria (FESF), il meccanismo studiato per venire in soccorso ai Paesi dell'Eurozona in difficoltà. Stando alle dichiarazioni stampa -perché nel comunicato finale non vengono evocate cifre precise - la dotazione del FESF verrebbe portata da 440 a 1.000 miliardi di euro. Anche in questo caso, non vi è traccia precisa di come conseguire tale obiettivo, mentre l'unica cosa certa è che sono escluse operazioni di aumento degli apporti di capitale da parte dei singoli Stati a moneta unica, non essendoci le condizioni politiche per farlo (i 17 Paesi dell'Eurozona versano ognuno una quota nazionale al FESF). Viene da più parti evocata la creazione di un fondo parallelo al FESF, gestito direttamente dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), aperto alle contribuzioni nazionali di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (i cosiddetti Paesi emergenti BRICS), oppure del Giappone e di quant'altri vorranno mettere capitali a disposizione dell'Europa per consolidarne la stabilità macrofinanziaria. Il direttore generale del FESF è stato spedito il giorno stesso a Pechino per aprire le discussioni con la Cina, viaggio che ha messo in evidenza l'urgente richiesta di aiuto dell'Unione Europea ai Paesi emergenti. Il possibile coinvolgimento della Cina negli affari monetari dell'Unione ha scatenato le ire di molti, che hanno accusato i leader europei di mettere il futuro dell'Europa nelle mani di Pechino, dipingendo scenari apocalittici, manco fossimo il Tibet o lo Xinjiang. Si tratta di una polemica sterile, anche se la natura politica del problema non va ignorata. Innanzitutto, i Paesi emergenti hanno bisogno di un'Europa stabile e prospera, ciò è utile anche alle loro economie. L'investimento sull'Europa è un investimento sulla loro stessa stabilità macroeconomica. Per quanto riguarda la Cina, il contributo volontario di cui si parla è dell'ordine dei 100-150 miliardi di euro, una goccia nell'oceano degli attuali flussi finanziari UE-Cina. Infine, non si capisce perché la seconda economia mondiale dovrebbe continuare ad investire le sue riserve solo sul dollaro o più in generale negli Stati Uniti, dimenticando peraltro che la Cina ha già comperato miliardi di euro di debito pubblico greco, italiano o spagnolo. Paesi come il Brasile e l'India hanno fatto sapere che non sono disponibili ad acquistare quote di debito spazzatura solo per sollevare la contabilità dei nostri bilanci: sarebbero pronti invece -attraverso il FMI- ad investire in operazioni economiche di rilancio della crescita europea, cosa che andrebbe salutata piuttosto che ostacolata. Comunque sia, allo stato attuale, la famosa potenza di fuoco dell'EFSF consiste in un rubinetto dal quale esce un filo d'acqua; tutti sanno che mille miliardi di euro non saranno comunque sufficienti in caso, ancora probabile, di tsunami politico-finanziario in Europa. Per la cronaca, la Germania -sempre lei- si è opposta all'idea di trasformare il FESF in una sorta di banca collegata alla BCE di Francoforte, dalla quale avrebbe potuto attingere a fondi importanti, che era poi l'idea portante di Sarkozy. La terza bugia politica che ci è stata raccontata dai leader che hanno partecipato ai vertici del 26 ottobre è che la loro decisione di cancellare il 50% del debito pubblico greco -cosa di cui bisogna certamente rallegrarsi- non è associabile in nessun modo ad una dichiarazione di default / fallimento, tutto questo perché le banche e gli investitori privati istituzionali hanno accettato "in modo volontario" (quasi entusiastico, ad ascoltare Sarkozy) di rinunciare alla metà del valore nominale dei crediti che hanno nei confronti di Atene. Ma per favore... I negoziati del 26 ottobre si sono protratti fino a notte fonda proprio perché a Bruxelles sono stati convocati i dirigenti dei principali istituti europei di credito, cui è stato ordinato di sottoscrivere la proposta. La loro firma volontaria in calce all'accordo era conditio sine qua non per evitare la dichiarazione formale di fallimento della Grecia: è stata così salvata la faccia all'Unione Europea e allo stesso tempo i fautori della linea dura contro la Grecia sono stati riportati alla realtà. Comunque sia, il condono del 50% del debito greco ha almeno il vantaggio di parlare un linguaggio di verità. Il 26 ottobre 2011 è stato deciso quello che si sarebbe dovuto decidere già a fine 2009, all’inizio della crisi greca. Con la sua politica verso la Grecia, animata da un inutile spirito di punizione e incapace di risollevare i destini economici di quel Paese, Angela Merkel porta la responsabilità maggiore del caos in cui si trova oggi l'Unione Europea. C'è chi sostiene che nel 2009 la Germania abbia scientificamente voluto lasciar marcire la situazione per imporre con più facilità una nuova governance liberista all'Unione: perfetto, solo che la situazione oggi sembra fuori controllo, l’austerità sta avendo pesanti effetti depressivi sulla crescita, il boomerang della crisi si sta dirigendo verso Parigi dopo aver devastato Atene, Dublino, Madrid, Lisbona o Roma, anche la locomotiva tedesca sta arrancando. Già, la Grecia. Che in cambio del condono -misura condivisibile e ragionevole- del 50% del suo debito pubblico ha dovuto impegnarsi ad applicare l'ennesimo piano di rigore e austerità, questa volta però con una novità rilevante: funzionari della troika composta da Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea sono stati distaccati in maniera definitiva e permanente ad Atene, per dettare contenuti e ritmo di un piano che porterà alla liquidazione totale di quel poco che resta dello stato sociale. Si tratta di un commissariamento in buona e dovuta forma della democrazia greca; non che prima fosse diverso, ma adesso le cose sono state messe in chiaro. La Grecia è ridotta al rango di direzione generale della troika cui vengono imposte linee di comportamento politico, finanziario ed economico che parlamento e governo devono limitarsi ad approvare. Il socialista Georges Papandreou aveva dato il suo pieno appoggio a questo piano, ma ha dovuto ricredersi quattro giorni dopo prendendo atto che il popolo greco ormai allo stremo non ne poteva più di altri piani di aggiustamento strutturale, votati esclusivamente al salvataggio delle banche e alla gestione / recupero delle esposizioni degli istituti di credito francesi e tedeschi sul debito greco. In prospettiva, c'era la cancellazione elettorale pura e semplice del PASOK, il partito socialista greco, e l'annientamento del significato della parola democrazia in Grecia. L'avrà forse capito nell'aereo che lo riportava da Bruxelles ad Atene dopo aver firmato l'accordo con Merkel e Sarkozy, fatto sta che l'annuncio di Papandreou sul referendum è uno di quei momenti della storia dell'Unione che ne cambiano per sempre i contorni. "Come osa il popolo greco pretendere di esprimersi con un referendum sui piani di salvataggio finanziario dell'euro? Si limiti a subire la scure fatta di tagli allo stato sociale, privatizzazioni e smantellamento del mercato del lavoro, come deciso da Bruxelles": è stata paradossale -molto grave sul piano democratico- la reazione delle capitali europee. Ma la sovranità non apparteneva al popolo? Non è questo il vero principio fondamentale alla base di tutte le costituzioni dei Paesi europei? La triste vicenda del referendum greco dimostra invece che oggi sono i mercati e le tecnocrazie europee, irresponsabili sul piano della legittimità democratica, a dettare le linee di comportamento a governi nazionali che esercitano il potere esecutivo su mandato elettivo, diretto o indiretto. Questo la dice lunga sul deficit democratico che caratterizza l'impianto istituzionale dell'Unione Europea: la sovranità popolare è stata manipolata in primis dall'ex-Premier Georgios Papandreou, la cui minaccia di indire un referendum mirava in realtà a drammatizzare il psicodramma collettivo sull'euro, unico modo per ottenere la costituzione di un governo di unità nazionale utile solo a spartirsi le responsabilità elettorali future sui piani di austerità imposti da Bruxelles. Eppoi è stata manipolata dall'Unione Europea, che ha fatto di tutto per impedire che i diretti interessati potessero esprimersi su una serie di misure imposte dall'alto che ne cambieranno la qualità della vita. Costruzione politica europea e consultazione democratica diretta sono diventate concetti incompatibili, un vero e proprio vulnus democratico. Poco importa, inoltre, se dopo le dimissioni di Papandreou ci siano ora al governo di Atene anche esponenti dell'estrema destra, del partito LAOS, "Allerta Popolare Ortodossa", una formazione nostalgica della dittatura dei colonnelli. LAOS è la grande vincitrice del processo di costruzione del governo di unità nazionale a tre, è LAOS che ha imposto con un ultimatum il già vicepresidente greco della BCE Lucas Papademos alla guida del nuovo governo di Atene, dopo che i socialisti del PASOK e i conservatori di Nea Demokratia avevano cercato di sbarazzarsene perché troppo indipendente. I recenti eventi politico-finanziari in Europa, la costituzione del governo di Lucas Papademos in Grecia e di Mario Monti in Italia sono il prodotto della nuova governance economica dell'Unione Europea, delle direttive della Banca Centrale Europea nonché dell'applicazione -dal gennaio 2011- del semestre europeo, in base al quale la Commissione Europea è autorizzata a monitorare le politiche di bilancio dei singoli Stati Membri UE, ad esercitare poteri di controllo e indirizzo generale di politica economica e finanziaria. L'Italia e la Grecia, dopo la piazza pulita di leader fatta in Spagna, Portogallo e Irlanda, sono diventate il luogo della sperimentazione politica di nuove forme di potere esecutivo i cui contenuti e sostanza sono elaborati altrove. Da questo punto di vista, sarebbe meglio, forse, scoprire tutte le carte ed aprire in Europa un dibattito politico strategico sul futuro dell'Unione Europea, perché così si va solo verso la disgregazione economico-sociale e l'erosione di quel poco di consenso che rimane sul progetto di integrazione politica continentale. Il rischio è di raccogliere solo i cocci di quello che rimarrà dell'Unione, perché lo smantellamento quotidiano dello stato sociale, pezzo per pezzo, in nome di politiche di austerità economica e sociale, rappresenta una forma di suicidio politico collettivo, dagli esiti non scontati. Il distacco tra l'Europa e le sue popolazioni è crescente, mentre quest'ultime vanno coinvolte nell'elaborazione di un nuovo progetto politico strategico, centrato sulla salvaguardia e promozione del modello sociale europeo. Altrimenti, a cosa serve l'Unione? A fare la guerra alla Libia? A delocalizzare in Cina e Asia gran parte della sua struttura industriale proponendo in alternativa ai nostri operai i salari e i diritti dei vietnamiti o degli indiani? Se a questo si aggiunge: 1) che il metodo comunitario per il momento è in coma profondo, vittima di un primitivo merkozysmo che fa credere a Merkel e Sarkozy di rappresentare il fine primo e ultimo dell'Unione; 2) che la Commissione Europea, guardiana dei Trattati, è oggi subalterna a Berlino e Parigi; 3) che il Parlamento Europeo, sede della rappresentanza popolare, non ha voce reale in capitolo sui grandi orientamenti di politica economica e finanziaria; 4) che le democrazie nazionali sono ricattate dai mercati e dalle agenzie di notazione che impongono governi a loro piacimento; si capisce allora che non si può escludere l'ipotesi di un cortocircuito democratico dalle gravi conseguenze per l'Unione. È la governance che oggi seleziona il personale politico di cui ha bisogno e lo mette al potere negli Stati Membri UE. Speriamo almeno che ciò funzioni, ma non è detto, perché il contagio tra i vari debiti sovrani questa volta è partito per davvero, la mercatizzazione della politica appare come il tentativo estremo di tener sotto controllo una situazione sfuggita di mano. Nel frattempo, le cartucce economico-finanziarie a disposizione dell'Unione stanno finendo o sono quantomeno spuntate, mentre si stanno aprendo nuovi focolai di tensione politico-finanziaria dagli esiti potenzialmente deflagranti. Il riferimento è alla Francia e alle gravi turbolenze che conosce la sua stabilità finanziaria, fenomeno che rischia di travolgere definitivamente l'euro e l'insieme del progetto d'integrazione. L’indice puntato sull’Italia a fine ottobre da Merkel-Sarkozy era servito anche a distogliere l’attenzione mediatica dalla situazione di altri Paesi con problemi simili ai nostri, per concentrarla sui due allievi più cattivi -Italia e Grecia- invitati a mettersi rapidamente in riga. In realtà, ad esempio, la situazione del debito sovrano francese è complicata almeno quanto la nostra: il debito pubblico di Parigi, ad euro costanti, è aumentato del 500% in 20 anni, nel 2000 tale debito ammontava a circa 900 miliardi di debito, pari al 56% del PIL; oggi è di 1.700 miliardi (quello italiano è di circa 1.880 miliardi di euro), praticamente il doppio, pari all'85% del PIL. Sempre nel Duemila, il debito pubblico italiano rappresentava il 110% del PIL (1.300 miliardi di euro), oggi il 120% (1.880 miliardi). È vero, il nostro debito è superiore alla ricchezza prodotta, ma le curve relative del debito francese preoccupano di più in prospettiva, così come quelle sull'andamento del rapporto deficit/PIL. Parigi possiede inoltre un'esposizione più pericolosa dell'Italia in termini di prodotti tossici verso il debito sovrano spazzatura di Paesi in difficoltà; la struttura del risparmio privato o del debito pubblico dell’Italia fornisce alcune garanzie politiche maggiori, anche se ovviamente questo non significa che da noi tutto va bene, anzi. Sarkozy lo sa, e ha spinto il suo Primo Ministro, François Fillon, a presentare una manovra da cento miliardi di euro in cinque anni che limiterà il campo d’azione politica del prossimo Governo e Presidente, qualunque sia lo schieramento che vincerà le elezioni del maggio / giugno 2012. Fillon, parlando il 7 novembre al Parlamento francese, ha esplicitamente affermato che "l'ipotesi di un fallimento della Francia non va escluso"; sappiamo che la drammatizzazione politica serve a serrare i ranghi della destra francese in vista delle elezioni presidenziali del maggio 2012, ma non sono parole in libertà. Come non bastasse, tre giorni dopo il Commissario Europei agli Affari Monetari, Olli Rehn, ha chiesto "misure supplementari alla Francia, oltre quelle già annunciate, per arrivare al pareggio di bilancio nel 2013", scatenando ulteriori incomprensioni politiche e perplessità dei mercati. È un panico celato quello che circola tra le capitali europee, non si possono ancora scartare le ipotesi di recessione economica nel 2012, tenuto conto anche delle difficoltà persistenti dell’economica americana. Valgono per tutti comunque le parole pronunciate il 17 novembre dal Governatore della BCE, Mario Draghi, secondo cui le prospettive della crescita rimangono fosche ancora per lungo tempo. L'impressione è che sia partito l'ordine del "si salvi chi può, ognuno faccia per sé", il modo peggiore per affrontare la crisi sistemica che abbiamo di fronte. In questo periodo, ad esempio, Francia e Germania si sono liberate di parti importanti di debito pubblico italiano, greco e spagnolo, causando tensioni importanti nei mercati finanziari, alla faccia della solidarietà europea e dei vari piani di salvataggio. Ognuno fa e dice la sua, viene detto tutto e il suo contrario: sono evidenti in questa crisi la mancanza di uno spirito europeo / europeista ed il fallimento delle istituzioni comunitarie. Al contrario, invece, trionfa la dimensione intergovernativa dell'Unione Europea, senza che ciò garantisca di per sé una soluzione alla crisi. Ma non tutto è perduto. È necessario che l'Unione Europea prenda -tra le altre misure di tamponamento urgente dell'emorragia finanziaria- almeno tre decisioni politiche fondamentali di lungo periodo, costruendo alleanze che mettano un in un angolo, se necessario, l'ostilità della Germania: 1) autorizzare la Banca Centrale Europea a garantire pienamente per le quote di debito pubblico spazzatura dei Paesi in difficoltà, continuando nell'acquisto di quote massicce di debito degli stati più esposti, nonostante i limiti formali del suo statuto; 2) accordarsi rapidamente sull'emissione di euroobbligazioni / eurobond, con protagonista sempre la BCE, per trovare le risorse necessarie al rilancio dell'economia europea, a partire dalle -timide- proposte della Commissione Europea; 3) più generalmente, modificandone lo statuto, dare alla BCE una struttura politica e decisionale simile a quella della Federal Reserve americana o della Banca d'Inghilterra per permetterle di intervenire a sostegno delle economie reali degli Stati Membri UE, invece di fissarsi sempre e solo sul controllo dell'inflazione. Non è simpatico dirlo, ma forse ciò accadrà quando la Francia -e di riflesso la Germania- sarà vittima, come sta accadendo, di un attacco in piena regola di quei mercati che hanno già scosso Italia, Spagna e così via. I presupposti ci sono tutti: la Francia si è trovata in queste settimane a dover pagare in alcuni momenti il doppio dei tassi d'interesse pagati dalla Germania sul mercato mondiale dei prestiti, il suo differenziale con i tassi tedeschi è -tra alti e bassi- sostanzialmente in ascesa, la campagna elettorale e l'inevitabile incertezza politica fanno il resto. L'ultima spia -in ordine di tempo- che il terremoto politico-finanziario non è ancora finito è lo sconcertante episodio del downgrading accidentale del debito sovrano francese da parte di Standand & Poor's. Il 12 novembre scorso, per un presunto "errore tecnico", nei computer dei clienti della più importante agenzia di rating è comparsa un'informativa urgente in base alla quale la Francia era stata declassata e aveva perso la sua tripla A; poche ore dopo la S&P rilasciava un comunicato stampa per scusarsi del “grave errore”. Chi può credere a questa storia di fanta-finanza? È evidente, invece, che si tratta di un segnale d'intimidazione politica e di anticipazione tecnica di uno scenario non più tabù, quello in cui la Francia perde la battaglia dei mercati perdendo il massimo della notazione. Lo stesso Sarkozy ha fatto sapere che "se perdo la tripla A sono finito, e con me la Francia": dichiarazione avventata ed imprudente, inutile dare altri vantaggi politici agli speculatori ed aumentare il livello di preoccupazione già esistente. Chissà, nei prossimi mesi magari vedremo che la tanto vituperata Italia ce la farà a risalire la china; e che la tanto acclamata Francia, con la sua grandeur, sarà chiamata a fare i conti con i guai lasciati da Sarkozy, un Presidente non poi così sicuro di essere rieletto il prossimo 6 maggio.

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