L'articolo presentato uscirà sul prossimo numero di Progetto Lavoro per una sinistra del XXI secolo
Stefano Squarcina
É venuto il momento di allacciare le cinture di sicurezza, e di stringerle forte, visto che stanno saltando uno dopo l'altro i vari piani di salvataggio elaborati dall'Unione Europea per tamponare la crisi finanziaria greca ed evitarne una più complessiva di tutta l'eurozona. Del resto, queste strategie non hanno alcun reale significato economico, limitandosi -in modo ostinato ed ideologico- a fare della Grecia un capro espiatorio per colpe che non sono tutte sue. Stiamo arrivando al momento della verità, all'ammissione politica dell'inadeguatezza dell'intervento europeo verso Atene e al riconoscimento del fatto che, alla fine, solo un fallimento controllato ed ordinato della Grecia rappresenterà la vera "exit strategy" da questa situazione. Certo, l'Unione Europea non userà mai formalmente questa parola ("default"), anche perché rappresenterebbe contemporaneamente il suo di "fallimento", politico ed economico-finanziario, ma basta dare un'occhiata alla realtà dei fatti per accorgersi di cosa stiamo parlando. Andiamo con ordine.
L'ultimo piano in data a non aver ormai alcun senso è l'accordo del 21 luglio 2011, quello con il quale i Ministri delle Finanze elaborarono un secondo piano di soccorso di 109 miliardi di euro per la Grecia, cui aggiungere altri 50 miliardi in termini di partecipazione del settore bancario privato (ovvero di contabilizzazione delle inevitabili perdite di valore delle quote di debito pubblico greco detenute dal sistema creditizio europeo). Nei mesi di agosto e settembre, infatti, la stabilità delll'Unione Europea è stata sconquassata dalla più grave crisi finanziaria dal 2008, amplificata dall'inutile declassamento del debito USA da parte dell'agenzia di notazione Standard & Poors, un fatto senza precedenti. La disintegrazione del tessuto economico e sociale della Grecia, ordinato dalla troika FMI-BCE-UE in cambio dell'erogazione di varie tranche di aiuti, non ha prodotto gli effetti sperati, e non poteva essere altrimenti. I piani della troika hanno contenuti depressivi, l'assurda austerità di cui sono impregnati non fa altro che comprimere ulteriormente ogni capacità della Grecia ad uscire dal tunnel. Non c'è da stupirsi allora se gli ultimi dati provenienti da Atene fanno intravvedere una dinamica del debito pubblico assolutamente fuori controllo ed un fallimento complessivo delle politiche sin qui imposte alla Grecia. Nel 2012, per il quarto anno consecutivo, Atene dovrà fare i conti con la recessione, si prevede un calo del PIL del 2,5%; nel 2011 chiuderà con un -3,9% della ricchezza prodotta, per un totale di -13% in quattro anni. Sforate in negativo anche tutte le previsioni di contenimento del deficit: per dicembre ci si aspetta un 8,5% rispetto al PIL contro un programmato 7,6%, per l'anno prossimo il dato si attesterà al 7% contro il 6,5% stimato, sempre nelle migliori delle ipotesi. Il debito pubblico è al 180% del PIL, non basteranno le ulteriori misure di austerità approvate dal governo Papandreou a fine settembre per invertire la rotta: riduzione dello stipendio dei dipendenti pubblici del 20%, licenziamento per trentamila funzionari, abbassamento della soglia di imposizione fiscale da otto a cinquemila euro, nuove tassa sugli immobili (che non verrà applicata ai beni della Chiesa ortodossa), drastico taglio alle pensioni, eccetera... La Grecia è allo stremo, i suoi ministri e parlamentari sono ridotti allo stato di funzionari che devono obbedire al capo, ovvero la troika BCE-FMI-UE, la popolazione è in uno stato permanente di mobilitazione politica e sindacale.
Il colpo di grazia è arrivato il 3 ottobre scorso, quando i responsabili delle finanze dei diciassette Paesi dell'Eurozona si sono rifiutati di sbloccare una sesta tranche di aiuti alla Grecia, ufficialmente con la scusa che la troika non aveva ancora elaborato la sua relazione sullo stato di avanzamento delle "riforme economiche" di Atene. Non solo: l'Eurogruppo ha chiesto "alla Grecia di promuovere misure supplementari di rigore economico, in particolare per quanto riguarda le liberalizzazioni e nuove privatizzazioni di settori economici", rinviando ad una data non precisata lo sblocco degli aiuti promessi visto che Atene avrebbe risorse utilizzabili "almeno fino alla metà di novembre". Il fatto è che l'Unione Europea non sa più che pesci pigliare per evitare quella che è la prospettiva economico-finanziaria più realista, un fallimento controllato della Grecia: l'iniezione di miliardi di euro nel sistema greco in cambio di austerità e depressione non ha prodotto nessun risultato, la situazione sembra "imballata". Lo dimostra il dibattito sul "Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria" (EFSF), nato morto ancora prima di essere ratificato da tutti i Paesi dell'Eurozona. Dotato di 440 miliardi di euro e presentato come l'elemento salvifico della situazione, è ormai evidente che non servirà a granché: durante la riunione dell'Eurogruppo del 3 ottobre tutti i ministri presenti si sono detti d'accordo sul fatto che la dotazione del fondo è insufficiente a coprire i bisogni reali dei piani di intervento a favore della Grecia ma anche di Portogallo, Spagna, Irlanda e probabilmente Italia. Tutti gli sforzi sono ora concentrati su quello che viene eufemisticamente definito "potenziamento della capacità di fuoco" dell'EFSF, peccato che non ci avessero pensato prima... Valutazioni minimaliste parlano della necessità di trovare almeno 2.000 miliardi di euro, e a tal fine si sta lavorando su tre ipotesi ("effetto-leva") di modifica del fondo stesso, non ancora entrato in vigore: trasformare l'EFSF in una specie di banca che possa accedere senza limiti ai fondi della Banca Centrale Europea; farlo diventare una "agenzia di assicurazione" per i detentori privati (leggasi "banche") dei titoli di stato dei Paesi in difficoltà, in misura almeno del 25%; permettere al fondo di garantire acquisti futuri di debito pubblico a lunga scadenza per rassicurare i fantomatici mercati.
Che un fallimento controllato ed ordinato della Grecia sia ormai l'unica strada possibile lo dimostra anche la discussione "a porte chiuse" sul contributo che il sistema bancario privato deve dare alla crisi greca. Sia il "secondo piano" del 21 luglio che la creazione dell'EFSF si basano sull'ipotesi che le banche devono contabilizzare una perdita di almeno il 21% del valore delle quote di debito greco in loro possesso. Dopo il terremoto finanziario di quest'estate, però, questa percentuale dev'essere realisticamente rivista molto al rialzo, voci della Commissione Europea parlano almeno di un 50%. "Stiamo discutendo di revisioni tecniche in tal senso", ammette Jean-Claude Juncker, Presidente dell'Eurogruppo, forte -si dice- del sostegno di almeno sette dei diciassette membri dell'eurozona, tra cui ci sarebbero anche la Germania e l'Olanda, Paesi normalmente ostili a questo tipo di operazioni. Si va dunque verso una partecipazione accresciuta del settore bancario privato alle operazioni di soccorso dell'eurozona, mettendo in conto almeno il 50% delle perdite: e che cos'è questo se non un default? In più, si sta studiando come colpire -almeno in parte- un effetto perverso e assolutamente inaccettabile legato allo stato in cui si trovano le finanze greche e di altri Paesi: la greve speculazione cui si stanno dando corpo e anima numerose banche private europee e non, che stanno facendo miliardi sulle tristi sorti economiche del popolo greco. Molti hedge funds e fondi speculativi, infatti, hanno acquistato parti significative del debito greco "spazzatura" a prezzi stracciati (40 centesimi di euro rispetto ad un valore nominale di un euro), puntando ad una loro sicura rivalutazione grazie agli interventi di sostegno delle varie operazioni di soccorso. Grandi gruppi finanziari come Loomis Sayles o Black Rock (USA), Julius Baer (Svizzera), Natixis (Francia) o Sta-Cap (Germania) hanno comperato l'equivalente di duecento milioni di euro di debito greco a prezzi risibili (e questa è solo la punta dell'iceberg). Mutatis mutandis, ecco perché l'establishment finanziario non vuole il "default" della Grecia o di altri Paesi, si tratta di lucrare su operazioni speculative a medio termine, altro che "aiuti al popolo greco". Il rischio, dunque, è che le operazioni di soccorso alla Grecia vengano in realtà sfruttate dai grandi fondi speculativi per arricchirsi, cosa francamente inaccettabile in una tale situazione.
A spingere verso un fallimento controllato della Grecia -o comunque lo si vorrà chiamare- è anche "l'oggettiva difficoltà di molti istituti bancari a mettere dei fondi a disposizione, perché hanno un problema di liquidità", ha detto il 4 ottobre il futuro Presidente della BCE, l'italiano Mario Draghi, attualmente responsabile del "Financial Stability Board", organismo incaricato di riscrivere le regole finanziarie globali. Il problema della ricapitalizzazione delle banche è ormai sul tavolo, verrebbe forse in aiuto -non si sa quando- un futuro "fondo FMI" dotato di 3.000 miliardi di euro (ma in questo momento ognuno "spara" le sue cifre). Ciò che è vero è che i governi degli Stati Membri UE non sembrano politicamente disposti a mettere altri soldi nel "pozzo senza fondo" della crisi greca, che il volume dei prestiti interbancari è al minimo storico, che il sistema bancario europeo è alquanto fragile. Il fallimento / smantellamento del colosso bancario franco-belga Dexia ad inizi ottobre parla per tutti, Dexia è la prima vittima della seconda ondata di crisi che starebbe per abbattersi sull'Europa.
"Default controllato", insomma, come ipotesi realistica e sempre più accreditata: i giornali greci scommettono addirittura sul 7 novembre 2011 come data di "proclamazione" del fallimento, cui seguirebbe una ristrutturazione del debito pubblico greco. Rimane da sapere perché si è arrivati solo ora a tale consapevolezza da parte europea, malgrado la diversa terminologia usata nei comunicati ufficiali: molto semplicemente perché la Grecia è stata presa in ostaggio da una politica ideologica, quella del mainstreaming della Commissione e dei fantomatici mercati, ispirati da un cieco rigore e da un'assurda austerità che rischia di far esplodere l'intera Unione Europea, loro compresi. La stessa cecità che impregna la nuova "governance economica" licenziata in via definitiva dal Consiglio ECOFIN del 4 ottobre. Per coprirsi le spalle sul piano politico, la Commissione Europea propone adesso di creare una "tassa sulle transazioni finanziarie" (che poco ha a che vedere con la "Tobin Tax" proposta dagli altermondialisti, soprattutto per l'utilizzo dei proventi, che andrebbero per la ricapitalizzazione delle banche) o di investigare la fattibilità degli Eurobond. Cose che prenderanno molti mesi, se non anni, soprattutto gli Eurobond, per vedere la luce. Nel frattempo, la casa brucia.
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