venerdì 22 giugno 2012

Gli Eurofagi

Roberto Musacchio - Nel suo periglioso viaggio di ritorno ad Itaca, Ulisse si imbatte in una isola misteriosa i cui abitanti sono dediti al consumo di un cibo particolare: è l’isola dei lotofagi. Chi mangia di quel cibo diviene dimentico di ogni cosa della sua vita, passata e futura e Ulisse dovrà penare per portare in salvo se stesso e i suoi marinai. La metafora mi frulla in mente da un poco di tempo e in particolare ogni volta che leggo e sento che al cibo magico, l’euro, non si può rinunciare perché ciò sarebbe una catastrofe. La consonanza su questa affermazione apodittica tra destre e sinistre (buona parte) è impressionante e come sempre quando si verifica una sorta di pensiero unico è bene guardare se non si stia appunto in uno stato ipnotico. Proviamo a fare una verifica ponendoci una serie di domande. Innanzitutto per chi è la catastrofe.
Qui i soggetti spesso si confondono e si sovrappongono. Catastrofe per chi esce, o è cacciato, dall’euro e penso alla Grecia per la quale l’eventualità è stata profilata? O catastrofe per l’intera Europa, che, perdendo qualche sua parte vedrebbe messo a rischio l’intero sistema monetario e diverrebbe più vulnerabile alle scorribande della speculazione che l’attaccano e finirebbe col veder crollare il suo sistema monetario? Come si vede sono due situazioni assai diverse. Se valesse veramente la parte per il tutto, e cioè se esce la Grecia il rischio è per tutti, l’atteggiamento così ricattatorio tenuto verso di essa sarebbe assai meno efficace da parte di chi lo ha brandito come una clava. Chi comanda nell’Europa tecnocratica ha invece deciso di correre il rischio del pugno di ferro certo di poter vincere col ricatto e di poter gestire anche l’eventuale esito di rottura. E’ un atteggiamento di forza, quello di basarsi sulla non esistenza di alternative, che incide non poco sugli esiti politici che si vanno determinando. Ed è lo stesso atteggiamento che viene tenuto rispetto al rischio di catastrofe generale, cioè l’implosione dell’intero sistema monetario. Lo si corre proprio perché anche qui ci si sente tutelati dalla mancanza di altre strade disponibili da parte di chi si vorrebbe opporre alle scelte imposte. E soprattutto perché si ha in mente un uso proprio e strumentale del rischio di catastrofe, un uso costituente di un altro ordine, che per altro viene dichiarato e cioè il definitivo superamento del modello sociale europeo. Non capisco perché questa dichiarazione esplicita non viene presa sul serio e posta al centro del modo di pensare di chi si oppone. Non capisco come non si colga che le tecnocrazie che dirigono il processo in atto non sono vittime di una aggressione esterna all’Europa da parte della finanziarizzazione globalizzata ma elemento attivo di questa nuova dimensione, di cui fanno storicamente parte avendo iniziatone il processo. E non capisco come non si colga come esse riescano a fare un uso consapevole della sostanza, l’euro, senza vedere dispersa la propria memoria. La memoria è quella di una lotta sociale che, data per morta a sinistra, è ripresa con virulenza da destra. E allora torniamo alle domande. Catastrofe per chi e come. Tutti presi da una lettura trasversale e quasi neutra, fatalistica, della catastrofe, non si vede più quasi la sua dimensione sociale e di classe. Vedere il ruolo forte della Germania e quello debole della Grecia non può disperdere il punto di vista di chi è debole in Germania e debolissimo in Grecia. Altrimenti non si riesce neanche a provare ad invertire quel confinamento neanche nazionale ma nazionalistico che le sinistre hanno subito in questi decenni mentre le classi dominanti si rendevano protagoniste di un nuovo compromesso capace di gestire la globalizzazione. Ma poi catastrofe come. Qui la traslazione del punto di vista verso quello dei dominanti è impressionante. La catastrofe, si dice, si ha se crolla l’euro perché ciò comporterebbe i rischi maggiori per i più deboli. Perché quello che è divenuto nei fatti uno dei principali strumenti dell’imposizione di determinate politiche dovrebbe essere lo scudo dei più deboli è difficile capirlo. Si dice che l’uscita di un Paese dall’euro, o il crollo del sistema monetario, ancora due ipotesi sovrapposte, svaluterebbe i redditi e favorirebbe le rendite. Ma non è quello che sta succedendo da tempo ed ancor più con l’euro? Per altro non sta succedendo solo questo. Sta succedendo che già oggi per interi Paesi e, soprattutto, per interi ceti sociali, l’euro costa di più e vale di meno che per altri ( noi stessi dicemmo sin dall’inizio che ci pagavano in lire e pagavamo invece in euro ). E sta succedendo che per tenerselo come scudo si stanno dismettendo tutti gli altri scudi che 100 anni e più di movimento operaio avevano costruito. Parlo dei diritti del lavoro, dei contratti, del welfare, dell’economia pubblica. Che sono tra l’altro i possibili scudi di parziale difesa nel caso in cui il ricatto si trasformasse in effettiva espulsione e si dovesse affrontare una ricollocazione propria nel sistema globale, che, per altro, è ora più articolato. I poveri non solo divengono più poveri ma sono ridotti in servaggio. L’euro che doveva attraverso l’integrazione favorire l’armonizzazione sta avendo l’effetto contrario e cioè quello di determinare un regime sempre più differenziale dei diritti, tutti spinti verso il basso, e un sistema di colonizzazione di beni pubblici e capacità produttive che non si conosceva dai tempi di costruzione degli imperi. Per non parlare del sistema democratico che viene smembrato a favore della edificazione di una nuova forma tecnocratica che non ha precedenti storici. Non a caso il Consiglio Europeo di fine mese si accinge ad operare in tutte queste direzioni inviando 27 lettere dettagliate con gli obblighi di austerità dei singoli Stati per il prossimo anno, indicando privatizzazioni dei beni pubblici e comuni, liberalizzazione del mercato del lavoro e procedendo all’integrazione dei sistemi bancari e fiscali sotto una egida non democratica. Il no taxation without rappresentation appartiene all’era antica e finita di un pensiero liberale che doveva confrontarsi col pensiero di un movimento sociale nascente. Ora questo movimento sociale sembra del tutto dimentico di sé. E discute se dopo, dopo tutto ciò, la Germania uscirà lei dal’euro, come se non sapessimo che il capitalismo è forza permanentemente distruttrice che marcia per vie proprie e cerca di sfuggire ad ogni logica razionale. Rende razionale il reale, avrebbe detto qualcuno. Per esempio diventa razionale che in Grecia si festeggi la vittoria degli stessi partiti che avevano contribuito al disastro. A testimoniare che le tecnocrazie di oggi non guardano in faccia e non hanno nessuna vocazione a comuni compromessi democratici come furono quelli del dopoguerra. Uscire dall’euro, dunque? Non è quello che penso. Ma penso che l’obiettivo per i deboli non possa essere semplicemente restare nell’euro ma difendere ed anzi tentare di estendere i propri scudi e cioè i diritti, combattendo contro la povertà ma anche contro la nuova schiavitù. Solo così l’euro può servire, se piegato agli interessi opposti a quelli che sta ora servendo. E cioè alla costruzione di una armonizzazione democratica, economica e sociale che è l’esatto opposto di quello che sta accadendo. Cosa che finora non è stata e obbliga a chiedersi perché, pena la non credibilità assoluta. Ha ragione Latouche quando scrive che la moneta può essere un buon servitore ma è sicuramente un pessimo padrone. In fondo ci ricorda la lezione antica della critica dell’economia politica, quella che nell’isola degli eurofagi rischia l’oblio.

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